Libri su Giovanni Papini

1957


Cesare Angelini

Vivere coi poeti

[Capitolo] Papini e il cardinale, pp. 32-35
(32-33-34-35)



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   Siamo certamente in molti ad attendere le Schegge domenicali che da qualche mese Papini vien pubblicando sul suo giornale milanese, e ad accorgerci che talune sono veramente belle, degne del tempo del suo più felice inventare: tempo di 100 pagine di poesia e Giorni di festa, e la maraviglia dei lettori quasi non trovava riposo. Renato Serra troverebbe ancora molto da lodare nella dorata abbondanza di quest'ultima stagione del fiorentino: il senso sodo e polposo del vocabolo e il gusto maravigliante dell'immagine. Per questo, il Papini migliore ci pare sempre nei momenti descrittivi: quando lo scrivere è un divertimento. Quando, viceversa, giudica e manda secondo i suoi umori talvolta imprudenti, piace meno, o addirittura dispiace. E perché non dirglielo?
   Così gli diremo che ci è dispiaciuta una scheggia dell'8 agosto passato: «Un quasi santo quasi assurdo», in cui Papini attacca il cardinal Federigo Borromeo per una parte del suo colloquio con don Abbondio; dove Federigo, con animo sincerissimo e parole penetrate di eroica virtù, da accusatore si fa accusato, e prega don Abbondio di volerlo rimproverare, se sa che lui pure ha mancato. Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono spesso più noti agli altri che a loro; se voi sapete che io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo


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francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov'è mancato l'esempio, supplisca almeno la confessione. Rimproveratemi liberamente le mie debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la forza necessaria per far ciò che prescrivono. Forse il Seicento non ha udito parole più alte e valorose di queste.
   Ma Papini dice che quest'impennata di umiltà potrebb'esesere definita a proposito con quella parola (ohibò) che il cardinal d'Este usò a sproposito per l'Orlando Furioso. E continua: Era mai possibile e concepibile che un misero pretucolo di campagna ... potesse essere a conoscenza delle brache o addirittura delle segrete cose dell'arcivescovado?
   A parte le parolacce, che non sono espressione di maschilità ma piuttosto di debolezza, l'osservazione non è nemmeno originale. L'aveva già fatta, con molto garbo, il Momigliano, anni fa, nel suo commento al romanzo. Anche per il Momigliano questa parte del colloquio, somiglia ad una gara. Tanto più - aggiunge - che, contro l'intenzione del cardinale, il confronto finisce col non esser per lui una prova d'umiltà; perché egli non può ignorare che esso si concluderebbe in suo favore; come proclama esclamativamente don Abbondio: «Chi non conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di Vossignoria illustrissima?»
   Nemmeno il Momigliano ha capito che quel gioco (chiamiamolo così) di botte e risposte tra il cardinale e il curato, giova mirabilmente a dar risalto all'animo del cardinale penetrato di virtù altissima, di fronte all'animo sprovveduto del povero curato.
   Ma l'errore dei due lettori, per diversi motivi, eccezionali, sta nel considerare quelle parole staccate dalla situazione in cui son nate e che le solleva a così alta temperatura. Per capire la profonda finissima psicologia che è in esse, bisogna leggere anche un po' più indietro e un po' più avanti. All'osservazione precedentemente fatta da don Abbondio: Vossignoria illustrissima


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   parla bene; ma bisognerebbe esser nei panni d'un povero prete, e essersi trovato al punto, veniva naturale la risposta-confessione del cardinale: ne era provocata, sollecitata. Chi legga attentamente, nelle parole di don Abbondio par s'annidi addirittura una tacita stizzosa accusa. Come dire: «Vossignoria cos'ha fatto per me, cosa fa per me, per salvarmi?» E il romanziere nota che don Abbondio, appena ebbe proferite quelle parole, s'accorse d'essersi lascialo vincere dalla stizza, e disse tra sé: «Ora vien la grandine!» Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, di veder l'aspetto di quell'uomo... passare da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa. Le parole sono cariche della più fine psicologia umana, e più che umana. C'è un passaggio improvviso, la rivelazione di una virtù nuova. C'è il segreto per capire la profondità della confessione, troppo imprudentemente incriminata come una volata prettamente rettorica. Ora non è più il superiore, è il santo che parla: e il santo può, anzi, ha bisogno di scendere a questo livello: mettersi nei panni dell'accusato e farsi accusato lui stesso. Di fronte al suo curato, il cardinale si sente disarmato, per il fatto che egli vive lontano dai pasticci in cui l'altro si trova. Sente che, per aver ragione di quest'uomo, e riescire a farlo pensare, bisogna scendere sul suo piano. Infatti don Abbondio - dice il Manzoni - pensava dentro di sé: Oh che sant'uomo!
   Don Abbondio ha capito più di Papini che era davanti a un santo.
   Insomma, prima che da Papini, quelle parole sono state pensate dal Manzoni: e, come aiuto a comprendere la psicologia dei santi, per ora, scegliamo il Manzoni.
   Sul finire della scheggia Papini parla d'altre volate rettoriche che purtroppo si trovano nei discorsi del cardinale inventati da don Lisander. Vedremo l'altre volate rettoriche, se Papini ce le indicherà. Ma quei discorsi sono proprio inventati?
   I biografi del Manzoni parlano dell'innegabile influenza che


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monsignor Tosi, vescovo di Pavia, ebbe sul romanziere. Il Magenta, per esempio, dice che a mano a mano che il Manzoni avanzava nello scrivere il romanzo, ne mandava i fogli al Tosi, chiedendogli il lume dei suoi retti giudizi; e, accennato alle omelie del Tosi, che anche al Manzoni parevano cose assai belle, aggiunge: Anzi, udii persino dire che il Manzoni avesse scritto pagina del cardinal Federigo sotto l'influenza di quei discorsi.
   E noi custodiamo una lettera autografa e pressoché inedita del Tosi, diretta a riprendere la condotta d'un parroco della sua diocesi. Leggendola, vien fatto di pensare che il Manzoni l'avesse sott'occhio quando stendeva il famoso colloquio, tanto si somigliano nello spirito di umiltà e di carità che l'infiamma. E si pensa - si pensa, dico - che quei discorsi non siano del tutto inventati.


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